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Il grido altissimo e feroce. Nessuna guerra sui nostri corpi.

Il grido altissimo e feroce. Nessuna guerra sui nostri corpi.

La giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne e la violenza di genere sarà ancora una volta caratterizzata dalla grande manifestazione a Roma del 26 novembre, indetta da NonUnaDiMeno, ma anche da tante piazze e tante iniziative che vedranno una presenza marcata di collettivi, gruppi e soggettività varie. Una presenza di piazza che da qualche anno si ripropone, in Italia e nel mondo, ma che si prospetta tutt’altro che rituale. In questo ultimo anno il quadro politico e sociale, nazionale ed internazionale, è sicuramente peggiorato e la violenza di genere continua ad esprimere la sua valenza strutturale. L’affermazione dell’ultradestra reazionaria al potere, anche in Italia, ha alzato il livello diffuso di conflitto nei confronti delle istanze di libertà, di autodeterminazione, di rottura degli stereotipi di genere, di lotta alla violenza patriarcale in tutte le sue espressioni. Il modello familista Dio Patria e Famiglia si fa sempre più invasivo e minaccioso: dalla sanità alla scuola, alla militarizzazione dei territori, alla presenza del mondo militare all’interno dei percorsi scolastici ed universitari.            Lo slogan che lancia la manifestazione romana del 26 novembre è “Nessuna guerra sui nostri corpi”. In questo anno durissimo, segnato da una nuova guerra e dal rilancio del militarismo, rilancio riscontrabile sia nelle concrete azioni belliche che nella cultura e nella comunicazione militarista, il dibattito femminista  si è saputo collegare con le tante lotte e presenze sul territorio che in quest’anno sono cresciute e che hanno marcato una determinata opposizione alle guerre. La comunicazione mainstream mostra ampiamente le sfilate del pacifismo istituzionale e di quello benedetto dal papa. Ma una cosa è certa: oltre a queste voci contraddittorie ed ambigue, oltre chi si è scoperto pacifista quando si è trovato a far parte dei partiti di opposizione, sono maturate lotte importanti che hanno trovato radicamento sociale. Abbiamo visto da almeno un anno, molto prima di febbraio e dell’inizio del conflitto in Ucraina, il rafforzamento dell’antimilitarismo radicale, la lotta contro tutte le guerre e le missioni militari, la solidarietà a chi si oppone e diserta, per l’abolizione di confini, contro la produzione e il traffico di armi, contro ogni forma di discriminazione. Il femminismo più consapevole e radicale ha saputo collegarsi con tutto questo: un dibattito che aveva preso le mosse nell’estate del 2021, quando la restaurazione del governo dei talebani in Afghanistan e la smobilitazione dell’occupazione statunitense hanno avuto una narrazione femonazionalista che è stata puntualmente denunciata dalle femministe. In quella occasione ancora una volta si abusava strumentalmente del corpo delle donne, misurando la presentabilità di una dittatura, come di fatto è la teocrazia patriarcale talebana, attraverso il livello di integrazione al potere di una componente femminile contigua al potere stesso. In quel periodo fiorirono le azioni di solidarietà con le donne e le libere soggettività che in Afghanistan rivendicavano la loro libertà tanto contro l’oppressione talebana, quanto contro l’ordine imposto dall’occidente attraverso le guerre coloniali, soprattutto quelle orchestrate in nome di una presunta liberazione delle donne. Il dibattito femminista costruitosi in quell’occasione ha avuto una prosecuzione. Le femministe libertarie non sono rimaste più una voce singola a denunciare le connessioni strette tra militarismo, sessismo e patriarcato, ma la questione si è progressivamente fatta strada, riconoscendo collettivamente il valore intersezionale della critica al militarismo.                                                      Si è quindi progressivamente affermata una lettura  che vede la guerra come massima espressione della violenza patriarcale, nodo strutturale del sistema capitalista fondato sullo sfruttamento delle persone e dell’ambiente, mettendo in connessione emergenza ambientale, salute, militarizzazione del territorio, guerra, violenza di genere, sessismo, patriarcato, lotta per l’autodeterminazione. Il femminismo nella sua prospettiva transfemminista e intersezionale è parte attiva di questa complessità , situandosi  nelle lotte che sono progressivamente cresciute e riportandone al suo interno esperienze e collaborazioni.                                                                                                                L’assemblea nazionale di NonUnaDiMeno svoltasi a Reggio Emilia il 29 e 30 ottobre scorso,  lavorando sulle tematiche di guerra, ecologia politica, violenza e autodeterminazione, ha rappresentato a questo proposito un interessante laboratorio di confronto. L’impegno contro la guerra ha visto crescere in questi mesi la presenza attiva di gruppi e realtà transfemministe, all’interno di lotte  trasversali nate sui territori. Tra le altre il Movimento No Base contro la costruzione di una nuova base nel territorio di Coltano, l’Assemblea antimilitarista costituita il 9 ottobre 2021 a partire dalla connessione tra missioni militari, guerre e tutela degli interessi estrattivisti e dell’ENI , l’Assemblea permanente contro la guerra all’interno del movimento transnazionale EAST.                                        L’assemblea nazionale di NUDM ha ovviamente trattato anche altre tematiche. C’è stato, ad esempio, un intenso confronto anche sulle relazioni con i movimenti ecologisti e con il percorso “Convergere per insorgere” promosso dal collettivo di fabbrica GKN.

Grande centralità naturalmente ha avuto il tema della violenza di genere, violenza che è elemento strutturale del sistema; in proposito c’è stato un confronto tra le  esperienze attivamente impegnate nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, dalle iniziative autogestite, alle consultorie, ad alcuni CAV. Analogamente è stato sviluppato un dibattito su aborto, obiezione di coscienza, finanziamento alle associazioni antiabortiste nei consultori. In un movimento che sempre più, da anni,  associa alle istanze femministe quelle delle libere soggettività in una comune lotta per l’autodeterminazione, molta attenzione è stata rivolta ad una riflessione sulla eliminazione della legge 164, sui transcidi, come pure alle connessioni della giornata per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne e la violenza di genere  con il Trans Day of Remembrance.

Insomma, il 26 novembre la piazza romana sarà ricca di temi, di progetti, di connessioni, così come lo saranno le tante piazze che in quei giorni animeranno le nostre città. Saranno piazze di denuncia delle varie forme che la violenza assume, che sapranno raccontare con rabbia e con determinazione i molteplici livelli di  sfruttamento che si intrecciano nelle nostre vite come donne, come libere soggettività, come lavoratrici, disoccupate, precarie, sfruttate, razializzate e migranti; persone su cui si riversa la violenza dell’inflazione, dell’emergenza climatica, della corsa al riarmo, della guerra, del patriarcato. Saranno piazze transfemministe che rifiutano le gabbie del genere, che rifiutano l’assoggettamento alla riproduzione sociale che ci opprime e costringe in ruoli, che rifiutano di affrontare la questione della violenza con formule securitarie. Saranno piazze che affermano la libertà e l’autodeterminazione. Ma soprattutto saranno piazze che ancora una volta faranno sentire il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne e di tutte quelle persone che più non hanno voce.

Nadia

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